Zoe ha gli occhi aperti sul mondo

Zoe ha gli occhi aperti sul mondo

venerdì 30 marzo 2012

SULLA VIA DEL RITORNO

Ciao amico o amica della notte. O del giorno?
In fondo....che ne so?

Ad un certo punto mi persi, ma 
allo stesso modo
ho ritrovato la strada.
Cartelli sparsi ovunque,
mi dicono
"DIREZIONE GIUSTA!"
"PROSEGUIRE!"

Non per caso,
ho voluto farlo.
Qualcosa mi ha detto che dovevo farlo.
O magari qualcuno?
E la sto percorrendo
questa maledetta strada.
Ma Orione non è più nel cielo.
Non lo vedo più.
E senza di lui,
forse,
non saprò mai dove sto andando veramente.

Zoe


mercoledì 21 marzo 2012

AD UN CERTO PUNTO....MI PERSI


Ci sono volte, in cui ti rendi conto che hai perso qualcosa di importante, solo dopo averla persa per sempre.
Ti accorgi, che hai smarrito un frammento di te, ma solo quando è diventato tardi, troppo tardi.
Cerchi disperatamente di recuperarlo, di ritrovarlo, di riaverlo, perchè lo consideravi tuo. E magari eri convinto di poter disporre di quel qualcosa a tuo piacimento, all'infinito. Eri sicuro di te e avevi la certezza che quella cosa era sotto il tuo totale controllo. Invece no.
Ad un certo punto un pezzo di te viene a mancare e, già un'ora dopo, ne senti un bisogno disperato.
E' vero che va così?

Ci sono volte poi, in cui ti fermi e ti chiedi se ne è valsa la pena, di dare tutto te stesso, per qualcosa o qualcuno.
Me lo sono domandato spesso e la risposta che mi sono dato è sempre stata la stessa: dipende dagli occhiali che indosso.

Comunque la mettiamo, basta girarci intorno, non credi?
Solo in pochi, rarissimi casi, il futuro non si trova nelle nostre mani.
Persino quando rimaniamo inerti e passivi.
Insomma, qualunque atteggiamento assumiamo, non c'è nulla da fare: abbiamo inciso sul nostro avvenire. 
Per il solo fatto di aver preso una decisione, qualunque essa sia.
Anche il non decidere, è una decisione, se ci pensi bene.
E' questa la realtà.
Quasi sempre, possiamo scegliere, decidere cosa fare di noi stessi, dove andare, che strada prendere. 
In alcuni casi, ci perdiamo. 
E qui, lo sai bene, può essere difficile ritrovare la via giusta.
Ma non impossibile.
Anche in questo caso, tutto sta nel prendere una decisione.
Qualunque essa sia.
Pensaci.

Questo è quanto mi passa per la mente questa sera e ho voglia, forse necessità, di condividere con te questo stato d'animo così confuso e contrastante.
Mentre, veloci come fulmini, passano immagini e volti. 
Cerco di fermare quelli più cari e rassicuranti, ma non ci riesco.
Potrebbero confortarmi, ma stasera appaiono e basta, non restano con me.

Per ora, passo e chiudo. 
Non te ne avere, questa sera va così.
Ma prima di andare, ti dono una poesia, scritta da uno dei più grandi cantautori italiani viventi.
Almeno per me.... ;-)
Buonanotte.


Invece di andarmene da qui ,
piuttosto che lasciarti ancora la soddisfazione,
decisi di cambiare totalmente la mia posizione ....
E' solo che ...
mi persi

E ancora ieri
consideravo che
se tu non c'eri
io.. 

Però è un pensiero inutile .

Ma sì, ma sì, 
lo so qual era il modo esatto per riavere tutto ....
E' solo che ...
mi persi.

E poi chissà,
ognuno ha il suo piccolo razzo,
lanciato nel blu dello spazio,
con dentro frammenti di sé.

Ma sì, ma sì,
lo so che avrei dovuto prenderti e sfidare il mondo...
E' solo che ...
mi persi

Ma sai che c'è ? 
Che se ognuno ha il suo piccolo razzo ,
io devo aver perso il contatto ,
e adesso perdonami se
mi è rimasta soltanto la parte peggiore di me

(Mi persi - Daniele Silvestri)


Zoe Kipling

Future is in our hands


sabato 17 marzo 2012

VENTI DI GUERRA




Marzo 1940

L’anno 1940, precisamente nel mese di Marzo, Giuseppe fu giudicato idoneo a riprendere l’insegnamento, anche se solo come supplente. L’incarico, in realtà, dipese da un fattore ben preciso.
Mussolini aveva iniziato a richiamare ex ufficiali da alcuni mesi, per comandare le truppe che si stavano ammassando sul fronte alpino, a difesa del territorio. E il maestro che Giuseppe avrebbe sostituito era proprio uno di coloro che aveva avuto “l’onore” di proteggere i confini della patria, in caso di evento bellico.
La guerra in realtà era già iniziata nel 1939. Le milizie di Hitler si muovevano rapidamente conquistando territori su territori.
Ma il Duce era rimasto neutrale quell’anno. Sapeva di essere debole e male organizzato, quindi decise di stare alla finestra. Fin quando, convinto dalla formidabile avanzata tedesca e dalla potenza di Hitler, iniziò a sognare una facile vittoria e un ricco bottino.
La guerra era alle porte, tre mesi dopo, nel Giugno 1940, l’Italia sciolse gli indugi e iniziò le attività belliche al fianco dell’esercito nazista.

Pertanto, in questo contesto così incerto, si liberò un posto da supplente, che fu offerto al nostro Giuseppe Bottini.
La sospensione dall’incarico di maestro elementare, avvenuta nel 1932 per sospette idee eversive e il successivo confino a Lipari, durato fino al 1936, non fecero perdere il suo elevato punteggio, conseguito nel concorso pubblico a cui finalmente partecipò.
Inoltre,  il regime lo considerava oramai innocuo e “rieducato”.
Quell’incarico di supplenza arrivò come una sorta di grazia divina, perchè avrebbe determinato un affrancamento economico dagli ormai vecchi e opprimenti genitori. Forse un giorno avrebbe finalmente abbandonato quella casa e quel quartiere che non amava affatto. Magari sarebbe riuscito a trovare un piccolo appartamento, anche un buco situato nel peggior distretto cittadino. Ma sarebbe stato tutto suo, solo suo.
Gli fu affidata una terza classe maschile nel quartiere Delle Vittorie.
Il quartiere era abbastanza lontano dal suo ma, nonostante questo, riuscì ad arrivare per primo nel giorno in cui iniziava l’incarico. Proprio mentre un corpulento bidello apriva l’enorme cancellata.
Dopo essersi accreditato con il grasso custode della scuola – invero molto sospettoso – e ottenute le indicazioni per raggiungere la classe, salì veloce le scale che portavano all’ingresso e affrontò quasi di corsa un lungo corridoio grigiastro dal pavimento di travertino malandato, ma lucido e pulito.
Quinta porta a destra.
Eccola, terza B, scritto a chiare lettere sul muro grigiastro, appena sopra lo stipite.
Giuseppe rimase immobile per un lunghissimo minuto, ad ascoltare il silenzio che regnava in quel luogo.
In quel breve lasso di tempo, riuscì a scattare una fotografia virtuale e a notare ogni dettaglio.
Una bella e lunga vetrata permetteva al sole di illuminare l’ambiente.
Sulla bianca parete dietro la cattedra, ai lati del crocefisso, campeggiavano i ritratti del re Vittorio Emanuele III e del Duce, oltre a un immagine di un ignoto militare. Accanto ad esso, l’indispensabile lavagna, posta vicino la vetrata. Sulla cattedra, solo un obbrobrioso fermacarte a forma di fascio littorio. Sulla destra, l'immancabile altoparlante della radio, per consentire di ascoltare eventuali discorsi del Duce, e una grossa stufa per il riscaldamento dell’ambiente. Infine, perfettamente allineati e coperti,  i banchi di legno scuro. Giuseppe contò tre file e per ognuna nove banchi. Ci sarebbero stati al massimo ventisette bambini, quindi una classe di media popolosità.
Giuseppe poggiò l’elegante valigetta di pelle nera sulla cattedra e si diresse verso la lavagna.
Quindi, prese a cancellare le parole scritte, forse, dal maestro che lo aveva preceduto.
A minuti sarebbero arrivati i bambini e tutto doveva essere in ordine.....

La classe di Giuseppe

lunedì 12 marzo 2012

VERSO LA LIBERTA’ – ATTO QUINTO



Roma,  Venerdì 5 Agosto 1938

Giuseppe trovò un pò d’ombra per grazia di un solitario alberello piantato, senza criterio alcuno, al centro di Piazza Pontida, nel bel mezzo della “Garbatella”. In realtà quel piccolo nucleo di lotti abitativi, costruiti con i medesimi criteri e architetture del più esteso quartiere popolare omonimo adiacente la via Ostiense, portava il nome di Tiburtino Secondo.
La piazza non era molto distante dalla dimora di Giuseppe, situata in via Belluno, nel ben più elegante quartiere Nomentano e vicinissima a Villa Torlonia, la residenza romana del Duce.
La temperatura non accennava a calare e l’aria era soffocante da diversi giorni, a causa dell’afa che non allentava la sua morsa.
Quasi una settimana prima, il 30 Luglio, furono superati i 36 gradi all’ombra e tutti dicevano che finora era stato il giorno più caldo della stagione.
Un’estate bollente, quella del 1938, che arrivava dopo una bella e tiepida primavera, ma anche a seguire di un rigido inverno, dove il termometro segnò più volte temperature sotto lo zero. Livelli anomali per Roma che, di solito, non soffriva mai più di tanto il gelo.

Giuseppe si sedette su un muretto di marmo, riparato dall’ombra della pianta, e quindi iniziò a sfogliare la rivista che aveva appena acquistato. Prima di partire con la lettura, si guardò intorno per un breve attimo, poichè si sentiva disturbato dal vociare di un nugolo di mocciosi sporchi e straccioni.
In effetti, cosa ci facesse lui in quel posto mezzo malfamato, era cosa non immediatamente spiegabile.
Come al solito Giuseppe era impeccabile. Ma era proprio una nota stonata, piazzato nel bel mezzo di un luogo che faceva concorrenza a S.Lorenzo per povertà, disordine, puzza e lordume.
Ma aveva camminato abbastanza, era madido di sudore e quell’angolino di ombra non lo avrebbe mollato almeno per un pò.
Aveva molta sete, ma non vedeva fontanili a vista d’occhio.
Così, cercando di reprimere il desiderio di dissetarsi, riprese a sfogliare quella rivista bella nuova, che odorava ancora di inchiostro, piombo e rotative.
Era poco più di un giornaletto, “La difesa della razza”, questo era il titolo.
Giuseppe lo aveva comperato perchè era il primo numero e lui era sempre interessato a nuove pubblicazioni, nella speranza di trovare qualcosa che non fosse solo bieca e ottusa  propaganda di regime.
Ma non nutriva grandi aspettative. Il solo titolo proiettava ombre nere e oscuri presagi.
I contenuti generali erano penosi, scritti da giornalisti focomelici e acefali.
Ma fu la parte centrale della rivista a causare, per alcuni secondi, l’arresto del respiro di Giuseppe.
Un manifesto del 1938
Le pagine mediane, contenevano una sorta di manifesto, firmato da dieci “scienziati”, così almeno venivano nominati.
Il Bottini ne conosceva qualcuno e sapeva bene che alcuni di loro nemmeno occupavano cattedre universitarie, ma svolgevano più modesti ruoli di assistente o ricercatore.
“Studiosi” che provenivano da tutto l’italico stivale, con il fondato sospetto che fossero stati precettati, per non dire obbligati.
Antropologi, zoologi, demografi, neuropsichiatri.....
Quel proclama, era niente di meno che il famigerato “Manifesto della Razza”, da cui poi discesero – a velocità incredibile – le cosiddette Leggi Razziali.
Quella roba abominevole non poteva essere stata scritta da altra persona che non fosse il Diavolo, pensò Giuseppe.
Nonostante la strisciante persecuzione ideologica e anche psicologica, subita dopo aver lasciato le camicie nere, il confino e ora la segreta sorveglianza, Giuseppe non tappava occhi e orecchie. Aveva capito da tempo che Mussolini era sempre più debole nei confronti del neo alleato Hitler. Aveva anche compreso che il Duce aveva sempre più paura di quello scomodo e bellicoso vicino, che pochi mesi prima aveva annesso l’Austria e che ora si trovava proprio alle porte dell’Italia.
Giuseppe Bottini da Lucca chiuse per qualche secondo gli occhi e rievocò i fotogrammi dell’ultimo cinegiornale Luce, che aveva visto pochi giorni prima.
Si, era proprio come immaginava. Stava succedendo.
Ripercorse il filmato, che celebrava nuovi patti tra le due nazioni.
I due dittatori sfilavano ritti in piedi, dentro una macchina a tetto aperto, che procedeva lentamente tra stendardi, svastiche e ali di folla invasata. 
Hitler era perfettamente a suo agio, nel mezzo di quell’immane rito quasi dionisiaco.
Il dittatore tedesco mostrava fiero il volto di pietra e dispensava il saluto romano alla folla, che al suo passaggio sembrava cadere in una sorta di trance.
Fuochi, aquile, statue evocative. 
Non sembrava un luogo reale, ma invece lo era. E tutto quel marasma umano sembrava letteralmente posseduto da un qualcosa di superiore e diabolico.
Mussolini sembrava stordito come un pugile che ne ha prese troppe. Non aveva mai visto una cosa del genere, era folle. Il suo Fascismo non era quello che stava vedendo.
Provò a partecipare a quell’orgia mediatica, ma era consapevole: lui non era nessuno, non c’entrava nulla in quel posto.
Giuseppe fece uno sforzo per focalizzare il Duce.
Ecco cosa sembrava: un piccolo fantaccino capitato lì per caso, oppure un insignificante attendente, per non dire un lacchè.
Giuseppe chiuse la rivista, provando vergogna e sentendo un forte nodo alla gola.
Avrebbe voluto poter piangere, ma c’era tanta gente e un uomo non piange mai, non in pubblico.
Lui però non era come gli altri ed era sicuro che, in un mondo diverso, avrebbe potuto dar sfogo alla sua tristezza e alla sua rabbia. Piangere e amare un altro uomo senza doversi nascondere come un criminale.

Giuseppe sentiva che il Fascismo era definitivamente morto, quel manifesto era l’epitaffio.
Non c’era più speranza, era finito tutto. 
Ora sarebbe stata solo una lenta e inesorabile deriva.
Il desiderio di piangere lasciò subito posto alla rabbia.
Quello che era stato scritto nel “Manifesto della Razza” non apparteneva in alcun modo alla cultura del popolo italiano.
Si parlava di razza ariana, in quel proclama fatto di dieci punti partoriti da un manipolo di squilibrati, forse costretti semplicemente a mettere le loro firme, con una persuasiva pistola puntata alla tempia.
Su quel manifesto c’era scritto che gli ebrei non avrebbero avuto più diritti e che non era possibile considerarli uomini come gli altri.
Di lì a poco, gli adulti avrebbero perso il lavoro, a prescindere dalla tessera di partito, i bambini sarebbero stati cacciati dalle scuole, derisi, insultati.
E tutto lasciava pensare che sarebbe stato solo l’inizio.
C'erano molte "razze" minori da perseguitare.
Infatti, Hitler era già andato molto più avanti.

Ma cosa c’entrava questa roba, con la gente che viveva intorno a lui e che popolava tutto il suo sfortunato paese? Cosa?
Per cosa aveva marciato nel 1922, in cosa aveva creduto?
In questa merda?
Era chiaro.
Mussolini aveva ceduto alle pressioni di un alleato temibile e aveva deciso di compiacerlo, consapevole di non poterlo contastare con il suo milione di baionette arruginite. Ma questa cosa non poteva costituire una giustificazione.

Si erano fatte quasi le sei del pomeriggio e iniziò a spirare una leggera e corroborante brezzolina. 
Le foglie dello striminzito alberello sotto le cui fronde il Bottini da Lucca aveva trovato un pò di ristoro, iniziarono timidamente a sgranchirsi, dopo giorni di bonaccia totale.
Giuseppe si voltò in direzione del venticello fresco che era apparso all’improvviso. 
Era finalmente arrivato il ponentino. 
Lo stavano aspettando tutti, anche perchè – per tradizione popolare – segnava la fine della calura che non dava tregua ormai da un mese. 
E forse, da quella notte in poi, si sarebbe chiuso occhio per qualche ora in più.
Altra gente dei lotti popolari iniziò a scendere dai poveri alloggi e a gremire i già affollati cortili. 
Ad un certo punto, per pochi attimi in realtà,  tutti, contemporaneamente, si girarono  verso ponente, con il viso rivolto verso la fresca brezza.
Un magico fermo immagine che durò pochi secondi e che fu interrotto da un bimbetto impertinente che tirava la pregiata giacca di Giuseppe.
“Ehi piccolo, che succede?” domandò Giuseppe abbassando il capo verso un grazioso gnomo dai capelli e occhi nerissimi. Indossava una magliettina a righine  e pantaloncini corti neanche tanto malandati, ed era anche meno sporco di tutti gli altri.
“Dai, vai a giocare con gli altri, suvvia.....” riprese Giuseppe con un mezzo accento toscano che nemmeno lui sapeva da dove fosse uscito, visto che erano anni che non usava più quell’inflessione.
Il piccolo Balilla di Piazza Pontida
Il bimbetto, invece, non ne volle sapere di obbedire. 
Di tutta risposta, il minuscolo lestofante si pose ritto sull’attenti, tirò su di scatto il braccino destro e, scimmiottando un saluto romano, disse con la voce più alta e fiera che poteva tirar fuori:
“Evviva il Duce!”
Giuseppe guardò attonito il piccolo Balilla istruito a dovere che, forse un giorno avrebbe rappresentato quell’ordine nuovo in cui Mussolini segretamente confidava.
Ma solo pochi credevano sul serio in quel mondo immaginario, che forse stava solo nei sogni del dittatore. Era molto meglio seguire l’onda e arraffare tutto ciò che di tangibile il regime poteva dare: ricchezza, benessere, privilegio e potere.
Il ponentino si mise a spirare con maggior intensità.
Ma erano ben altri i venti che preoccupavano Giuseppe.
Trasportavano fumi pregni di polvere da sparo, insieme ad uno strano odore acre e putrescente.
La guerra era alle porte.




Nota dell'autore: i riferimenti storici nonchè i nomi dei luoghi sono reali. Sono reali persino il giorno in cui si svolge la storia (era proprio un Venerdì) e le condizioni climatiche che furono registrate nel 1938 a Roma (anche il 5 Agosto). Il resto.....frutto di fantasia

domenica 11 marzo 2012

PROMESSE


Questa sera  ti delizio - almeno spero! - con un piccolo post di intervallo.
Guarda un pò qui sopra che foto da "Intervallo RAI anni settanta" ti ho sfoggiato!...
Oggi avrebbe dell'incredibile, ma allora si permettevano lunghi intervalli tra un programma e l'altro, accompagnati da soporiferi pezzi musicali eseguiti con la lira. Ti rendi conto di come era diversa la vita solo trenta anni fa?
Vabbè, a che serve questa patetica nostalgia. Trent'anni ancor prima (tipo nel 1950), molti dicevano che le cose andavano meglio quando c'era il Duce ......
In ogni caso, se ti piace il racconto che sto pubblicando quasi quotidianamente - Verso la Libertà per capirci - , riprenderà prima possibile.

Sono reduce da uno spettacolare week end con la mia compagna (senza pupa di 14 mesi, yeeeeeeee!!!)
Sono stato veramente bene, si, per davvero.
Cosa più bella di tutte, senza mai provare il desiderio di essere altrove, se non dove mi trovavo, esattamente in quel momento.
Sono riuscito a scoprire posti nuovi, persino dove ero già stato molte volte, sia per lavoro che per diletto. Si vede che stavolta i miei occhi erano più aperti e la mia anima meno distratta.
La zona di cui vi sto raccontando è comunemente chiamata Lucchèsia.
Detto in soldoni, si parla della ricca e rigogliosa terra che, in geografia politica, chiamiamo provincia di Lucca.
Ciliegina golosa: ho anche rivisto un caro amico, a cui voglio veramente "un mondo di bene".
Ma non è di lui che ora voglio narrare, nè del mio spensierato girovagare per le campagne toscane.
Voglio solo fare una riflessione insieme a te.
Vado? Ma si.......Deh! Suvvia......!

Ordunque parliamo di promesse.
Mi chiedo molto spesso se ne faccio, quante ne faccio, a chi le rivolgo e, punto cruciale di snodo, se le mantengo. 
Siccome ad un certo punto mi sono mezzo incartato il cervello, un paio di giorni fa ho deciso di incasellare alcuni concetti, nel tentativo di rispondermi. Di solito non mi piace fare un esercizio del genere, roba da maledetti ingegneri, che devono sempre dare un posto ad ogni cosa o persona (scherzo, son brava gente, in fondo in fondo, a volte persino divertenti).
Però non riuscivo ad uscirne e so quanto sia efficace avere un solido metodo logico per capire molti  fenomeni.
Parto quindi con alcune ipotesi e procedo a braccio, anche se sono consapevole in partenza che sicuramente se ne potrebbero fare altre.

Ipotesi A: SEMI-DIO
Il Dio egizio Ra
Fare tante promesse, magari ad una moltitudine di persone e mantenerle sempre. Non ho mai incontrato questo genere di individuo. Dimmi tu, esiste? Raro come la tigre bianca, ma forse sarebbe meglio dire immaginario, come l'unicorno. Se esiste, vi prego! Non mi fate morire senza averlo conosciuto!!
Ipotesi B: POLITICO o SINDACALISTA
Fare tante promesse, generalmente a una moltitudine di persone e mantenerne solo una parte, a volte una quota piuttosto esigua (di solito, portatori d'acqua).
In alcuni casi, se la situazione lo richiede, fare esattamente il contrario di quello che si era promesso. Comune come una penna a sfera BIC. Contagioso e a volte mortale.
Ipotesi C: PADRE/MADRE DI FAMIGLIA (di normale diligenza)
Fare poche ma importanti promesse, ovviamente concentrate sul futuro dei figli e del nucleo familiare. Di solito vengono onorate, magari dopo aver fatto carte false o sacrifici per mantenerle .Questo campione ha una numerosità notevole e in esso si possono racchiudere Moglie/Marito (solo quelli che si amano per davvero, non solo a parole). Comune e buono come il pane, anche se a certi orari scarseggia. Sono possibili lunghe carestie, e lì son dolori.
Ipotesi D: PADRE/MADRE DI FAMIGLIA (che non meritano di esserlo)
Si preferisce osservare un triste silenzio. Rientrano anche Moglie/Marito, che lo sono solo su un registro del comune.
Ipotesi E: MANAGER o CAPO (in genere)
Dipende da tanti fattori e non è facile creare un campione. Molti ci hanno provato, il più comune è il modello sugli stili di leadership o comando. 
La maggioranza di questi individui  fa promesse (a volte senza un solido fondamento) e, purtroppo, non sempre riesce a mantenerle. A volte i tapini non c'entrano nulla, ma potevano capirlo prima che non avevano poteri.
Alcuni, ne fanno poche e di solito le mantengono (razza in estinzione), e di solito sono molto stimati. Altri, disgraziatamente, ne producono tante: alcuni di loro, totalmente dissennati, ne fanno adddirittura tantissime. Purtroppo, tali promesse vengono spesso disattese. Questi ultimi vengono usualmente denominati QUAQQUARAQQUA' e sono pericolosamente in espansione. Ad ogni buon conto, questi loschi individui sono come le malattie esantematiche: una volta prese, poi si è immuni a vita. Tradotto: dopo due o tre fregature al massimo, non ci caschi più (se vai oltre, scusami ma.....sei un pò cretino....).
Ipotesi F: IMPIEGATI CHE HANNO UN CAPO MA NON SONO CAPI
Numericamente è un campione vastissimo. E' molto semplice. Dalle promesse che fanno e che riescono a mantenere, dipende gran parte del loro futuro. Sempre che non si imbattano nel pericolosissimo QUAQQUARAQQUA' di cui sopra. Allora lì - ahimè - ogni sforzo è vano.

Restano fuori tante ipotesi, ne sono consapevole.
Ma - a mio umile modo di vedere - tali ipotesi sono sottoinsiemi di quegli universi che ho appena citato. Pensaci e vedrai che è così.
In verità però, mi sa che manca un'ipotesi, quella più importante. Non te ne eri accorto, ammettilo!
E' L'ipotesi Z.....

Ipotesi Z: AMICO
Qui è proprio facile, signori miei. Non importa quante promesse si facciano. Quello che conta è che si mantengano. Escludendo solo quelle su cui proprio non ci si può far nulla. Esempio: ti ho promesso la macchina per il week end, ma il giorno prima si fonde il motore. E via con banalità di questo genere, ma era solo per capirsi.
Quello che conta è che si mantengano le promesse fatte ad un amico, poche o tante che siano.
Tutte quante.


Che fai dormi? No, dai stai sveglio ancora un secondino!
Perchè ora arriva la domanda finale che mi arrovella da un bel pò. Mica ho detto tutte 'ste robe giusto per fare lo statistico, mi fa pure schifo la matematica!
La domanda è: IO DOVE STO?
E finalmente la risposta me la sono data oggi, mentre attraversavo la verde maremma.
La risposta è: vado un pò dappertutto. 
Mi muovo praticamente su tutte le ipotesi, più o meno intensamente.
Spesso senza un disegno preciso, spinto dalla necessità del momento. 
Accade così a tutti?
Non lo so e non credo.
Non ne sono certo, ma penso di non avere molta compagnia.
Poche certezze, tanta confusione.
Ma c'è una cosa che so di sicuro.
Ci sono state volte in cui non ho mantenuto una promessa fatta ad un'amico. E non c'era nulla che mi avrebbe impedito di onorare la parola data, nessun motore fuso o rivolta civile. 
Niente. 
Solo egoismo, unito alla presunzione che un amico possa, anzi debba, sempre capire qualunque cosa io faccia.
Nel frammento, gli Amici



Zoe















venerdì 9 marzo 2012

VERSO LA LIBERTA' - ATTO QUARTO


Giuseppe si spostò verso prua per osservare la terra in avvicinamento
Le bianche case di Milazzo erano ormai ben visibili, e si intravedeva perfettamente il porto pieno di imbarcazioni di ogni genere e dimensione, nonchè tutto lo spazio di attracco, affollato di persone indaffarate, mezzi in movimento e merci depositate sui moli.
Giuseppe decise di ritornare velocemente a poppa, per dare un ultimo saluto a Lipari, ma rimase deluso.Non si vedeva più, anche perchè oramai nascosta dall’isola di Vulcano e il capo di Milazzo.
Peccato, ma in fondo aveva passato tutta la traversata, quasi due ore, con lo sguardo fisso verso quello che per tre anni fu il suo confino.
Una prigionia dorata, ove avvertì solo due fastidi: la netta privazione della libertà, non in tutte le forme possibili ma in molte,  e gli spazi ristretti. Novanta chilometri quadrati di terra e poco meno di quindicimila anime. La Roma che aveva lasciato volava ben oltre i 700.000 abitanti. Con i suburbi forse si poteva arrivare a 800.000, ma nessuno poteva dirlo con precisione.
Tra i vari amici e persone per bene che Giuseppe aveva potuto conoscere in quel periodo di sordida reclusione e silenzio, un uomo in particolare lo aveva magnetizzato totalmente.
Forse, ma non era mai stato certo, se ne era segretamente innamorato. Ma, per sua sventura, era un pieno esempio di eterosessualità, un uomo affascinante, molto amato dalle donne. E lui amava molto loro, tutte, senza distinzione.
Aveva diverse cose in comune con Giuseppe, in primis l’essere toscano. Lui era originario di Prato. Lo superava in cultura e di parecchio, perchè non era uno scrittore semi-dilettante come lui, che scriveva per un giornaletto clandestino (che fu la principale causa del suo confino politico). Era uno scrittore vero e anche un giornalista. Aveva pubblicato libri vendutissimi e scritto per testate importanti.
Però Giuseppe non veniva mai messo in condizione di inferiorità, anzi, si sentiva molto spesso valorizzato per le sue idee e per i suoi scritti.
Un’altra cosa che i due avevano in comune era la marcia su Roma, e la piena adesione ai Fasci di Combattimento.
Erano rimasti attratti entrambi da quel fresco idealismo e dall’utopia di poter contribuire a creare “l’Uomo Nuovo”. Anche se in momenti diversi, entrambi videro la fede crollare, quando scoprirono che all’originario, e quasi spontaneo movimento, si stava rapidamente sostituendo un regime sempre più totalitario e autoritario.
Giuseppe abbandonò formalmente ogni incarico di attivista nei primi mesi del 1923, poco tempo dopo la strage di S. Lorenzo e la morte di Nino. Ne uscì con la menzogna, adducendo necessità familiari. Ma in realtà perchè, alla fine, tutta quella violenza e quell’odio crescente, non gli appartenevano nemmeno un pò. Lui si sentiva socialista come il primo Mussolini, che mai rinnegò, e vedeva nel fascio quegli ingredienti che completavano la ricetta per un futuro migliore.
No, non erano solo belle uniformi e marce paramilitari dove si sentiva osservato da tutti.
Ordine, nazione, patria, famiglia, tutela e valorizzazione di quel ceto medio, a cui apparteneva e che non aveva alcuna identità, schiacciato sempre più da ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri.
Vedeva nel Fascio un formidabile “terzo attore”, che avrebbe sicuramente impedito alla sua classe sociale di precipitare verso il proletariato e perdere tutti i suoi piccoli ma importanti privilegi.
Nonostante l’abbandono dell’impegno attivo, che gli costò qualche mese di sorveglianza segreta, nonchè l'impossibilità di frequentare quartieri come S.Lorenzo (pieno di bolscevichi), decise di mantenere la tessera del Partito Nazionale Fascista. Il che gli fece ottenere – nel 1924 – un incarico di maestro elementare supplente. Dopo il 1925, quella tessera divenne l’unico modo per sperare di ottenere un lavoro.
Giuseppe condusse alcuni anni nel più completo e infelice oblio, prima di decidersi finalmente a riemergere dalla pozza di fango in cui si era immerso, un pò per paura, un pò per rassegnazione, molto per sfiducia nei suoi mezzi.
Invece, e come si sarà già capito, il suo amico di Lipari era una persona importante.
Dall’isola riusciva persino a far avere i suoi pezzi al Corriere della Sera, usando un bizzarro pseudonimo, "Candido". Era stato – udite – direttore della Stampa e fervido sostenitore della dittatura Fascista, almeno fino al 1925.
Ma era una testa che non smetteva mai di pensare, elaborare, creare e capire.
E alla fine, così come appoggiò le originarie idee, allo stesso modo le contrastò.
E fu confino anche per Kurt, così si chiamava questo amico che visse con lui nell’isola, in una casetta modesta, a poche decine di metri dalla sua, dal 1933 al 1936.
Giuseppe lasciò Lipari solo qualche giorno prima di Kurt, che mezzo mondo conosceva come Curzio.


Il traghetto, intanto, attraccava nel porto di Milazzo



Curzio Malaparte, uno dei più importanti giornalisti del XX secolo, ritratto a Lipari nel 1934, durante il suo confino

giovedì 8 marzo 2012

VERSO LA LIBERTA' - ATTO TERZO


Dicembre 1921


Da un paio di mesi ormai, l’osteria della “Nasona” era divenuta una tappa fissa per Giuseppe.
Ogni giorno, eccetto giusto la domenica per rispetto nel Signore, più o meno verso le cinque del pomeriggio, Giuseppe Bottini da Lucca, trapiantato di forza a Roma, usciva di casa e iniziava a bighellonare senza una meta apparente.
Ma ciò che appare, molto spesso non è.
Dopo alcuni giri per il quartiere, compiuti al solo scopo di dirottare chiunque avesse potuto seguirlo – ad esempio il temuto padre - d’improvviso uno scarto nella prima via a portata di piede, se possibile la meno illuminata.
Il passo accelerava progressivamente, fin quasi a divenire una specie di corsa podistica, e poi via, via veloce verso la vera destinazione, il ghetto di S.Lorenzo.

Giuseppe si era diplomato all’ Istituto Magistrale, ma non sarebbe mai divenuto un maestro elementare, se non partecipava almeno ad un concorso pubblico. Non che ce ne fossero stati molti, dal tempo del suo diploma. Però, nonostante la profonda crisi in cui versava la nazione italiana nell’immediato dopoguerra, qualche bando era stato pubblicato.
Per l’esattezza, su Roma ne uscirono tre a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro e a tutti questi Giuseppe Bottini poteva partecipare agevolmente, anche se i posti in palio erano veramente da contarsi sulle dita di una sola mano.
Ogni volta, Giuseppe preparava meticolosamente la documentazione necessaria e quindi si iscriveva per le prove.
La mattina dello scritto, faceva una colazione più abbondante del solito perchè, sosteneva la premurosa madre, la giornata sarebbe stata lunga e “ci sarebbe stato bisogno di molta legna, in quella caldaia chiamata cervello!”.
Salutati i familiari, che ogni volta lo guardavano come un figlio che parte per il fronte, il nostro Giuseppe si dirigeva con passo sicuro verso la fermata del tramvai che lo avrebbe portato in Trastevere, verso l’aula d’esame.
Vocabolario sotto il braccio, impeccabile e bello impettito come sempre.
Peccato, che tutte e tre le volte, Giuseppe scese un paio di fermate più in là, a pochi passi dal quartiere proibito che tanto lo attraeva.

Com’è difficile scrivere quello che si è visto o che si ha in testa.
Ne avete idea?
S.Lorenzo
Come si fa a far uscire la puzza terribile degli escrementi da queste pagine? Come faccio a farvela sentire come l’ho sentita io?
Come si può narrare le terribili condizioni in cui era costretto a vivere il popolo di S.Lorenzo?
Come si può descrivere l’orrore nel vedere precipitare da una finestra un neonato in fasce e assistere inerme allo schianto del microscopico corpicino al centro di una putrida pozza melmosa?
Per quanti sforzi si possano fare, per quanto si possa essere abili nella loquela, certe immagini non possono essere tradotte, almeno non da me.
Sarebbe bello poter donare agli occhi la capacità di parlare, o almeno far sì che possano produrre le fotografie di quello che vedono.

S.Lorenzo.
Luogo di immane penitenza, situato molto vicino al quartiere di notabili dove viveva agiatamente, ma profondamente infelice, Giuseppe Bottini da Lucca.
Giuseppe non si spiegava l’assurdo assetto urbanistico di Roma, un bizzarro e folle disegno che, almeno alla sua vista, sembrava attraversare l’intera città. Forse, perchè nella città da dove proveniva tutte le cose scorrevano in maniera più facile. Oppure, ancor più semplicemente, perchè, dopo la caduta dell’Impero Romano,  i secoli si erano sovrapposti senza alcuna armonia nè rispetto l’uno per l’altro.
Roma alternava vere e proprie bidonville, a ordinati quartieri abitati dal ceto medio oppure, peggio ancora, da una sprezzante alta borghesia o da una reazionaria e ammuffita nobiltà fuori dal tempo.

Roma aveva improvvisamente accelerato la sua espansione verso la fine del XIX secolo e quindi aveva avuto bisogno di braccia, per costruire edifici, per potenziare la ferrovia e per far funzionare le industrie più varie, che crescevano come funghi nelle remote e malariose periferie ai margini delle mura capitoline.
S. Lorenzo nacque proprio con l’intento di ospitare migliaia di braccia senza più terre da coltivare, che premevano disperate e fameliche alle porte della Capitale.
Quelle orde di disgraziati potevano essere utili a far crescere Roma e furono fatte entrare.
Il quartiere crebbe senza alcun criterio nè pianificazione, in una zona di aperta campagna ai margini dello scalo ferroviario. Contenuto in un ristretto perimetro, delimitato dalle mura aureliane, dalla vecchia e malandata via consolare Tiburtina, dal campo santo del Verano e, in seguito, dal nascente quartiere Nomentano.
S.Lorenzo si popolò velocemente di braccianti senza terra, ma anche di criminali in cerca di un rifugio e diseredati provenienti da ogni dove. Ben presto divenne una polveriera, di violenza, povertà ed emarginazione.
Eppure Giuseppe, nonostante i rischi che sapeva di correre, non saltava un giorno, eccetto sempre la domenica, beninteso, per rendere visita a quel luogo di profonda miseria umana.
Il pomeriggio era un appuntamento irrinunciabile per lui, ma molto spesso, vi si dirigeva anche a mezza mattina.
In questo caso, non aveva bisogno di tanti stratagemmi e spesso confessava ai suoi familiari la destinazione del suo girovagare, poichè era assolutamente lecita, persino lodevole, per chi un giorno ambiva a divenire un rispettabile maestro elementare.

S. Lorenzo, infatti, era come un deserto.
E come ogni deserto, aveva almeno un oasi.
La voce aveva circolato in fretta in tutta la città, quell’oasi era la Casa dei Bambini di Maria Montessori.

Giuseppe adorava i bambini e forse un giorno sarebbe diventato un maestro, se solo avesse trovato il coraggio di sostenere quel benedetto esame pubblico.
Ma Giuseppe non voleva diventare solo il maestro capace di vincere un concorso governativo. Quei metodi di insegnamento che aveva appreso, non c’entravano nulla con lui.
Lui voleva diventare come Maria.
Ma, allo stesso tempo, ben stirata su una gruccia, nell’armadio della sua camera, era appesa la camicia nera di squadrista.



Il porto di Milazzo è in vista

martedì 6 marzo 2012

VERSO LA LIBERTA' - ATTO SECONDO




All’età di sedici anni, sopraffatto da formidabile pressione paterna, Giuseppe Bottini da Lucca si arruolò nella legione garibaldina per combattere in Francia fino al 1915 quando, entrata l’Italia in guerra contro l’Austria, si trasferì nell’esercito italiano. Dove fece il suo dovere di soldato graduato in una brigata di artiglieria campale, senza eccellere in nulla, in verità nel più completo anonimato.
Finita la guerra, Giuseppe pensò bene di completare gli studi e ci riuscì, ottenendo un sudato diploma magistrale.
Verso la fine del 1919, ormai trasferitosi a Roma con tutta la famiglia, rimase attratto inizialmente da alcuni sedicenti gruppi anarchici e a seguire fu letteralmente “folgorato” dal manifesto programmatico del neonato movimento dei Fasci di Combattimento.
Blandito sicuramente dal suo idealismo originario ma, prima di tutto, per quell’esteta che era, da quelle austere e, a suo vedere, elegantissime uniformi nere. Che esaltavano le forme fisiche di chi, nel frattempo, era divenuto un uomo tutto sommato piacente.
Giuseppe era bello soprattutto quando indossava la camicia nera da squadrista e il fez.
Non particolarmente alto, ma piuttosto robusto, la carnagione olivastra, i capelli spessi e fitti color pece, gli occhi neri e penetranti di un corvo. Sempre elegante, impeccabile nel vestire e dal bel portamento, capitava abbastanza spesso che le donne lo guardassero con mal celato interesse, almeno con la coda dell’occhio, proprio quando indossava quell’uniforme carica di violenza. I suoi amici lo spronavano alle più intrepide imprese amorose, ma lui non dava mai soddisfazione, se non quando, praticamente trascinato di peso, era costretto a varcare controvoglia le soglie di un bordello.
Dopo una brevissima parentesi anarchica, agli inizi del 1920 Giuseppe entrò a far parte del Fascio di Combattimento Romano, aderendo ad una piccola sezione formatasi nel neonato quartiere Nomentano, dove viveva da poco meno di un anno, precisamente vicino via di Villa Massimo.
Giuseppe viveva da poco in quel quartiere che lentamente si andava formando e che lui non amò mai. 
Suo padre era un alto funzionario della Ragioneria dello Stato, che trascinò l’intera famiglia, lui, sua madre e il fratellino di dieci anni più piccolo, in quella città che era sconfinata, paragonata a  Lucca, spinto da “una solida prospettiva di carriera”. Così ripeteva ogni volta che sentiva venire meno il consenso domestico. Forse era vero, così come era vero che tutti quanti si sentivano terribilmente soli, ogni giorno, ora, minuto.
Giuseppe non amava quel quartiere, si diceva prima. Un posto fatto di villini e piccoli, eleganti condomini.Un luogo anonimo e senza anima che, piano piano, si andava popolando di notabili, funzionari, impiegati di concetto e commercianti ebrei, insieme al loro nutrito codazzo di servi e badanti.
Non appena poteva, Giuseppe sconfinava verso il quartiere limitrofo, S. Lorenzo.
Un vero ghetto, popolato da poveri operai, prostitute e gente di malaffare.
Osterie chiassose, ricolme di ubriaconi e pregiudicati.
Case piccole, diroccate e sovraffollate.
Urla di neonati e di adulti in preda a violenti alterchi, echeggiavano per le strette e sudicie viuzze.
Strade senza selciato, nessuna illuminazione pubblica, rivoli fognari a cielo aperto e miasmi pestilenziali. Un posto da dove chiunque avrebbe voluto fuggire.
Invece, in quel posto infame Giuseppe ci andava di nascosto e sempre più spesso, perchè sentiva scorrere la vita, quella vera.
Ebbe a trovarsi in serio pericolo, qualche volta, ma c'era una cosa che sempre lo portava a tornare. Ed era il poter osservare, a discreta distanza, una piccola scuola, pulita e ordinata, tenuta in piedi da una certa donna, chiamata Maria. Rimaneva ogni volta incantato nel vedere quei bimbi così poveri, eppure così felici e liberi, che giocavano in un cortile fiorito.
E fu proprio lì, in quel luogo infernale, più precisamente in una di quelle osterie dove il padre non avrebbe mai immaginato di trovarlo, che Giuseppe conobbe il suo Nino.

Lipari si allontana e diventa un puntino nel blu.


Continua....



I bimbi che giocavano nel cortile fiorito della scuola fondata da Maria Montessori in S. Lorenzo, al tempo il quartiere più povero e degadato di una Roma in rapida e disordinata espansione.