Dicembre 1921
Da un paio di mesi ormai, l’osteria della “Nasona” era
divenuta una tappa fissa per Giuseppe.
Ogni giorno, eccetto giusto la domenica per rispetto
nel Signore, più o meno verso le cinque del pomeriggio, Giuseppe Bottini da
Lucca, trapiantato di forza a Roma, usciva di casa e iniziava a bighellonare
senza una meta apparente.
Ma ciò che appare, molto spesso non è.
Dopo alcuni giri per il quartiere, compiuti al solo
scopo di dirottare chiunque avesse potuto seguirlo – ad esempio il temuto padre
- d’improvviso uno scarto nella prima via a portata di piede, se possibile la
meno illuminata.
Il passo accelerava progressivamente, fin quasi a
divenire una specie di corsa podistica, e poi via, via veloce verso la vera destinazione,
il ghetto di S.Lorenzo.
Giuseppe si era diplomato all’ Istituto Magistrale, ma
non sarebbe mai divenuto un maestro elementare, se non partecipava almeno ad un
concorso pubblico. Non che ce ne fossero stati molti, dal tempo del suo diploma.
Però, nonostante la profonda crisi in cui versava la nazione italiana nell’immediato
dopoguerra, qualche bando era stato pubblicato.
Per l’esattezza, su Roma ne uscirono tre a pochi mesi
di distanza l’uno dall’altro e a tutti questi Giuseppe Bottini poteva partecipare
agevolmente, anche se i posti in palio erano veramente da contarsi sulle dita
di una sola mano.
Ogni volta, Giuseppe preparava meticolosamente la
documentazione necessaria e quindi si iscriveva per le prove.
La mattina dello scritto, faceva una colazione più
abbondante del solito perchè, sosteneva la premurosa madre, la giornata sarebbe
stata lunga e “ci sarebbe stato bisogno di molta legna, in quella caldaia chiamata
cervello!”.
Salutati i familiari, che ogni volta lo guardavano
come un figlio che parte per il fronte, il nostro Giuseppe si dirigeva con
passo sicuro verso la fermata del tramvai che lo avrebbe portato in Trastevere,
verso l’aula d’esame.
Vocabolario sotto il braccio, impeccabile e bello
impettito come sempre.
Peccato, che tutte e tre le volte, Giuseppe scese un
paio di fermate più in là, a pochi passi dal quartiere proibito che tanto lo
attraeva.
Com’è difficile scrivere quello che si è visto o che
si ha in testa.
Ne avete idea?
S.Lorenzo |
Come si fa a far uscire la puzza terribile degli
escrementi da queste pagine? Come faccio a farvela sentire come l’ho sentita
io?
Come si può narrare le terribili condizioni in cui era
costretto a vivere il popolo di S.Lorenzo?
Come si può descrivere l’orrore nel vedere precipitare
da una finestra un neonato in fasce e assistere inerme allo schianto del
microscopico corpicino al centro di una putrida pozza melmosa?
Per quanti sforzi si possano fare, per quanto si possa
essere abili nella loquela, certe immagini non possono essere tradotte, almeno
non da me.
Sarebbe bello poter donare agli occhi la capacità di
parlare, o almeno far sì che possano produrre le fotografie di quello che
vedono.
S.Lorenzo.
Luogo di immane penitenza, situato molto vicino al
quartiere di notabili dove viveva agiatamente, ma profondamente infelice,
Giuseppe Bottini da Lucca.
Giuseppe non si spiegava l’assurdo assetto urbanistico
di Roma, un bizzarro e folle disegno che, almeno alla sua vista, sembrava
attraversare l’intera città. Forse, perchè nella città da dove proveniva tutte
le cose scorrevano in maniera più facile. Oppure, ancor più semplicemente,
perchè, dopo la caduta dell’Impero Romano, i secoli si erano sovrapposti senza alcuna
armonia nè rispetto l’uno per l’altro.
Roma alternava vere e proprie bidonville, a ordinati
quartieri abitati dal ceto medio oppure, peggio ancora, da una sprezzante alta
borghesia o da una reazionaria e ammuffita nobiltà fuori dal tempo.
Roma aveva improvvisamente accelerato la sua
espansione verso la fine del XIX secolo e quindi aveva avuto bisogno di
braccia, per costruire edifici, per potenziare la ferrovia e per far funzionare
le industrie più varie, che crescevano come funghi nelle remote e malariose
periferie ai margini delle mura capitoline.
S. Lorenzo nacque proprio con l’intento di ospitare
migliaia di braccia senza più terre da coltivare, che premevano disperate e
fameliche alle porte della Capitale.
Quelle orde di disgraziati potevano essere utili a far
crescere Roma e furono fatte entrare.
Il quartiere crebbe senza alcun criterio nè
pianificazione, in una zona di aperta campagna ai margini dello scalo
ferroviario. Contenuto in un ristretto perimetro, delimitato dalle mura
aureliane, dalla vecchia e malandata via consolare Tiburtina, dal campo santo
del Verano e, in seguito, dal nascente quartiere Nomentano.
S.Lorenzo si popolò velocemente di braccianti senza
terra, ma anche di criminali in cerca di un rifugio e diseredati provenienti da
ogni dove. Ben presto divenne una polveriera, di violenza, povertà ed
emarginazione.
Eppure Giuseppe, nonostante i rischi che sapeva di
correre, non saltava un giorno, eccetto sempre la domenica, beninteso, per
rendere visita a quel luogo di profonda miseria umana.
Il pomeriggio era un appuntamento irrinunciabile per
lui, ma molto spesso, vi si dirigeva anche a mezza mattina.
In questo caso, non aveva bisogno di tanti stratagemmi
e spesso confessava ai suoi familiari la destinazione del suo girovagare,
poichè era assolutamente lecita, persino lodevole, per chi un giorno ambiva a
divenire un rispettabile maestro elementare.
S. Lorenzo, infatti, era come un deserto.
E come ogni deserto, aveva almeno un oasi.
La voce aveva circolato in fretta in tutta la città,
quell’oasi era la Casa dei Bambini di
Maria Montessori.
Giuseppe adorava i bambini e forse un giorno sarebbe
diventato un maestro, se solo avesse trovato il coraggio di sostenere quel
benedetto esame pubblico.
Ma Giuseppe non voleva diventare solo il maestro
capace di vincere un concorso governativo. Quei metodi di insegnamento che
aveva appreso, non c’entravano nulla con lui.
Lui voleva diventare come Maria.
Ma, allo stesso tempo, ben stirata su una gruccia, nell’armadio
della sua camera, era appesa la camicia nera di squadrista.
Il porto di Milazzo è in vista
Una storia veramente bellissima... mentre leggo la immagino come fosse reale, come un film di De Sica...
RispondiEliminaGrazie, è come tutte le altre volte, in fondo. Ho una storia in testa e poi....vado, vado, vado, seguendo solo l'anima e il cuore.
RispondiEliminaLa cosa nuova è che stavolta parlo in terza persona e non al presente. E non è facile ti assicuro.....