Zoe ha gli occhi aperti sul mondo

Zoe ha gli occhi aperti sul mondo

lunedì 12 marzo 2012

VERSO LA LIBERTA’ – ATTO QUINTO



Roma,  Venerdì 5 Agosto 1938

Giuseppe trovò un pò d’ombra per grazia di un solitario alberello piantato, senza criterio alcuno, al centro di Piazza Pontida, nel bel mezzo della “Garbatella”. In realtà quel piccolo nucleo di lotti abitativi, costruiti con i medesimi criteri e architetture del più esteso quartiere popolare omonimo adiacente la via Ostiense, portava il nome di Tiburtino Secondo.
La piazza non era molto distante dalla dimora di Giuseppe, situata in via Belluno, nel ben più elegante quartiere Nomentano e vicinissima a Villa Torlonia, la residenza romana del Duce.
La temperatura non accennava a calare e l’aria era soffocante da diversi giorni, a causa dell’afa che non allentava la sua morsa.
Quasi una settimana prima, il 30 Luglio, furono superati i 36 gradi all’ombra e tutti dicevano che finora era stato il giorno più caldo della stagione.
Un’estate bollente, quella del 1938, che arrivava dopo una bella e tiepida primavera, ma anche a seguire di un rigido inverno, dove il termometro segnò più volte temperature sotto lo zero. Livelli anomali per Roma che, di solito, non soffriva mai più di tanto il gelo.

Giuseppe si sedette su un muretto di marmo, riparato dall’ombra della pianta, e quindi iniziò a sfogliare la rivista che aveva appena acquistato. Prima di partire con la lettura, si guardò intorno per un breve attimo, poichè si sentiva disturbato dal vociare di un nugolo di mocciosi sporchi e straccioni.
In effetti, cosa ci facesse lui in quel posto mezzo malfamato, era cosa non immediatamente spiegabile.
Come al solito Giuseppe era impeccabile. Ma era proprio una nota stonata, piazzato nel bel mezzo di un luogo che faceva concorrenza a S.Lorenzo per povertà, disordine, puzza e lordume.
Ma aveva camminato abbastanza, era madido di sudore e quell’angolino di ombra non lo avrebbe mollato almeno per un pò.
Aveva molta sete, ma non vedeva fontanili a vista d’occhio.
Così, cercando di reprimere il desiderio di dissetarsi, riprese a sfogliare quella rivista bella nuova, che odorava ancora di inchiostro, piombo e rotative.
Era poco più di un giornaletto, “La difesa della razza”, questo era il titolo.
Giuseppe lo aveva comperato perchè era il primo numero e lui era sempre interessato a nuove pubblicazioni, nella speranza di trovare qualcosa che non fosse solo bieca e ottusa  propaganda di regime.
Ma non nutriva grandi aspettative. Il solo titolo proiettava ombre nere e oscuri presagi.
I contenuti generali erano penosi, scritti da giornalisti focomelici e acefali.
Ma fu la parte centrale della rivista a causare, per alcuni secondi, l’arresto del respiro di Giuseppe.
Un manifesto del 1938
Le pagine mediane, contenevano una sorta di manifesto, firmato da dieci “scienziati”, così almeno venivano nominati.
Il Bottini ne conosceva qualcuno e sapeva bene che alcuni di loro nemmeno occupavano cattedre universitarie, ma svolgevano più modesti ruoli di assistente o ricercatore.
“Studiosi” che provenivano da tutto l’italico stivale, con il fondato sospetto che fossero stati precettati, per non dire obbligati.
Antropologi, zoologi, demografi, neuropsichiatri.....
Quel proclama, era niente di meno che il famigerato “Manifesto della Razza”, da cui poi discesero – a velocità incredibile – le cosiddette Leggi Razziali.
Quella roba abominevole non poteva essere stata scritta da altra persona che non fosse il Diavolo, pensò Giuseppe.
Nonostante la strisciante persecuzione ideologica e anche psicologica, subita dopo aver lasciato le camicie nere, il confino e ora la segreta sorveglianza, Giuseppe non tappava occhi e orecchie. Aveva capito da tempo che Mussolini era sempre più debole nei confronti del neo alleato Hitler. Aveva anche compreso che il Duce aveva sempre più paura di quello scomodo e bellicoso vicino, che pochi mesi prima aveva annesso l’Austria e che ora si trovava proprio alle porte dell’Italia.
Giuseppe Bottini da Lucca chiuse per qualche secondo gli occhi e rievocò i fotogrammi dell’ultimo cinegiornale Luce, che aveva visto pochi giorni prima.
Si, era proprio come immaginava. Stava succedendo.
Ripercorse il filmato, che celebrava nuovi patti tra le due nazioni.
I due dittatori sfilavano ritti in piedi, dentro una macchina a tetto aperto, che procedeva lentamente tra stendardi, svastiche e ali di folla invasata. 
Hitler era perfettamente a suo agio, nel mezzo di quell’immane rito quasi dionisiaco.
Il dittatore tedesco mostrava fiero il volto di pietra e dispensava il saluto romano alla folla, che al suo passaggio sembrava cadere in una sorta di trance.
Fuochi, aquile, statue evocative. 
Non sembrava un luogo reale, ma invece lo era. E tutto quel marasma umano sembrava letteralmente posseduto da un qualcosa di superiore e diabolico.
Mussolini sembrava stordito come un pugile che ne ha prese troppe. Non aveva mai visto una cosa del genere, era folle. Il suo Fascismo non era quello che stava vedendo.
Provò a partecipare a quell’orgia mediatica, ma era consapevole: lui non era nessuno, non c’entrava nulla in quel posto.
Giuseppe fece uno sforzo per focalizzare il Duce.
Ecco cosa sembrava: un piccolo fantaccino capitato lì per caso, oppure un insignificante attendente, per non dire un lacchè.
Giuseppe chiuse la rivista, provando vergogna e sentendo un forte nodo alla gola.
Avrebbe voluto poter piangere, ma c’era tanta gente e un uomo non piange mai, non in pubblico.
Lui però non era come gli altri ed era sicuro che, in un mondo diverso, avrebbe potuto dar sfogo alla sua tristezza e alla sua rabbia. Piangere e amare un altro uomo senza doversi nascondere come un criminale.

Giuseppe sentiva che il Fascismo era definitivamente morto, quel manifesto era l’epitaffio.
Non c’era più speranza, era finito tutto. 
Ora sarebbe stata solo una lenta e inesorabile deriva.
Il desiderio di piangere lasciò subito posto alla rabbia.
Quello che era stato scritto nel “Manifesto della Razza” non apparteneva in alcun modo alla cultura del popolo italiano.
Si parlava di razza ariana, in quel proclama fatto di dieci punti partoriti da un manipolo di squilibrati, forse costretti semplicemente a mettere le loro firme, con una persuasiva pistola puntata alla tempia.
Su quel manifesto c’era scritto che gli ebrei non avrebbero avuto più diritti e che non era possibile considerarli uomini come gli altri.
Di lì a poco, gli adulti avrebbero perso il lavoro, a prescindere dalla tessera di partito, i bambini sarebbero stati cacciati dalle scuole, derisi, insultati.
E tutto lasciava pensare che sarebbe stato solo l’inizio.
C'erano molte "razze" minori da perseguitare.
Infatti, Hitler era già andato molto più avanti.

Ma cosa c’entrava questa roba, con la gente che viveva intorno a lui e che popolava tutto il suo sfortunato paese? Cosa?
Per cosa aveva marciato nel 1922, in cosa aveva creduto?
In questa merda?
Era chiaro.
Mussolini aveva ceduto alle pressioni di un alleato temibile e aveva deciso di compiacerlo, consapevole di non poterlo contastare con il suo milione di baionette arruginite. Ma questa cosa non poteva costituire una giustificazione.

Si erano fatte quasi le sei del pomeriggio e iniziò a spirare una leggera e corroborante brezzolina. 
Le foglie dello striminzito alberello sotto le cui fronde il Bottini da Lucca aveva trovato un pò di ristoro, iniziarono timidamente a sgranchirsi, dopo giorni di bonaccia totale.
Giuseppe si voltò in direzione del venticello fresco che era apparso all’improvviso. 
Era finalmente arrivato il ponentino. 
Lo stavano aspettando tutti, anche perchè – per tradizione popolare – segnava la fine della calura che non dava tregua ormai da un mese. 
E forse, da quella notte in poi, si sarebbe chiuso occhio per qualche ora in più.
Altra gente dei lotti popolari iniziò a scendere dai poveri alloggi e a gremire i già affollati cortili. 
Ad un certo punto, per pochi attimi in realtà,  tutti, contemporaneamente, si girarono  verso ponente, con il viso rivolto verso la fresca brezza.
Un magico fermo immagine che durò pochi secondi e che fu interrotto da un bimbetto impertinente che tirava la pregiata giacca di Giuseppe.
“Ehi piccolo, che succede?” domandò Giuseppe abbassando il capo verso un grazioso gnomo dai capelli e occhi nerissimi. Indossava una magliettina a righine  e pantaloncini corti neanche tanto malandati, ed era anche meno sporco di tutti gli altri.
“Dai, vai a giocare con gli altri, suvvia.....” riprese Giuseppe con un mezzo accento toscano che nemmeno lui sapeva da dove fosse uscito, visto che erano anni che non usava più quell’inflessione.
Il piccolo Balilla di Piazza Pontida
Il bimbetto, invece, non ne volle sapere di obbedire. 
Di tutta risposta, il minuscolo lestofante si pose ritto sull’attenti, tirò su di scatto il braccino destro e, scimmiottando un saluto romano, disse con la voce più alta e fiera che poteva tirar fuori:
“Evviva il Duce!”
Giuseppe guardò attonito il piccolo Balilla istruito a dovere che, forse un giorno avrebbe rappresentato quell’ordine nuovo in cui Mussolini segretamente confidava.
Ma solo pochi credevano sul serio in quel mondo immaginario, che forse stava solo nei sogni del dittatore. Era molto meglio seguire l’onda e arraffare tutto ciò che di tangibile il regime poteva dare: ricchezza, benessere, privilegio e potere.
Il ponentino si mise a spirare con maggior intensità.
Ma erano ben altri i venti che preoccupavano Giuseppe.
Trasportavano fumi pregni di polvere da sparo, insieme ad uno strano odore acre e putrescente.
La guerra era alle porte.




Nota dell'autore: i riferimenti storici nonchè i nomi dei luoghi sono reali. Sono reali persino il giorno in cui si svolge la storia (era proprio un Venerdì) e le condizioni climatiche che furono registrate nel 1938 a Roma (anche il 5 Agosto). Il resto.....frutto di fantasia

2 commenti:

  1. Penso a quanti bocconi amari ha dovuto ingoiare chi visse in quel periodo. Mia nonna mi raccontava che nella maggior parte dei casi quelle folle adoranti non erano reali. Si doveva per forza andare sotto il balcone del Duce, venivano anche a cercarti a casa... Diamo per scontato l'espressione libera dei pensieri e delle opinioni, invece, i nostri nonni soffrivano e fremevano di rabbia tenedo questi sentimenti nascosti. A volte anche ai propri amici e parenti. D'altra parte non ci si poteva fidare di tutti. Lavorava e mangiava soltanto chi aveva la tessera del partito. Neppure i figli si potevano chiamare come si voleva. Mio padre, nato nel 1942, all'anagrafe era Vincenzo, ma in famiglia lo chiamavano Oberdan (Come l'eroe del Risorgimento)... terribile veramente. La libertà non dovrebbe mai essere scontata. Se Mussolini non avesse seguito quel visionario pazzo, forse la storia sarebbe stata diversa...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Lo penso anche io e con me qualche storico, come De Felice. Lui sostiene che se l'Italia non fosse entrata in guerra, il regime sarebbe durato ancora per molto tempo. Ma è teoria, le cose andarono in maniera diversa, purtroppo.

      Elimina