All’età di sedici anni, sopraffatto da formidabile
pressione paterna, Giuseppe Bottini da Lucca si arruolò nella legione
garibaldina per combattere in Francia fino al 1915 quando, entrata l’Italia in
guerra contro l’Austria, si trasferì nell’esercito italiano. Dove fece il suo
dovere di soldato graduato in una brigata di artiglieria campale, senza
eccellere in nulla, in verità nel più completo anonimato.
Finita la guerra, Giuseppe pensò bene di completare
gli studi e ci riuscì, ottenendo un sudato diploma magistrale.
Verso la fine del 1919, ormai trasferitosi a Roma con
tutta la famiglia, rimase attratto inizialmente da alcuni sedicenti gruppi
anarchici e a seguire fu letteralmente “folgorato” dal manifesto programmatico del
neonato movimento dei Fasci di Combattimento.
Blandito sicuramente dal suo idealismo originario ma,
prima di tutto, per quell’esteta che era, da quelle austere e, a suo vedere,
elegantissime uniformi nere. Che esaltavano le forme fisiche di chi, nel frattempo,
era divenuto un uomo tutto sommato piacente.
Giuseppe era bello soprattutto quando
indossava la camicia nera da squadrista e il fez.
Non particolarmente alto, ma piuttosto robusto, la
carnagione olivastra, i capelli spessi e fitti color pece, gli occhi neri e
penetranti di un corvo. Sempre elegante, impeccabile nel vestire e dal bel
portamento, capitava abbastanza spesso che le donne lo guardassero con mal
celato interesse, almeno con la coda dell’occhio, proprio quando indossava
quell’uniforme carica di violenza. I suoi amici lo spronavano alle più
intrepide imprese amorose, ma lui non dava mai soddisfazione, se non quando,
praticamente trascinato di peso, era costretto a varcare controvoglia le soglie
di un bordello.
Dopo una brevissima parentesi anarchica, agli
inizi del 1920 Giuseppe entrò a far parte del Fascio di Combattimento Romano,
aderendo ad una piccola sezione formatasi nel neonato quartiere Nomentano, dove
viveva da poco meno di un anno, precisamente vicino via di Villa Massimo.
Giuseppe viveva da poco in quel quartiere che
lentamente si andava formando e che lui non amò mai.
Suo padre era un alto funzionario
della Ragioneria dello Stato, che trascinò l’intera famiglia, lui, sua madre e
il fratellino di dieci anni più piccolo, in quella città che era sconfinata, paragonata a Lucca, spinto da “una solida prospettiva di carriera”. Così ripeteva ogni
volta che sentiva venire meno il consenso domestico. Forse era vero, così come
era vero che tutti quanti si sentivano terribilmente soli, ogni giorno, ora,
minuto.
Giuseppe non amava quel quartiere, si diceva prima. Un posto
fatto di villini e piccoli, eleganti condomini.Un luogo anonimo e senza anima che, piano piano, si andava
popolando di notabili, funzionari, impiegati di concetto e commercianti ebrei,
insieme al loro nutrito codazzo di servi e badanti.
Non appena poteva, Giuseppe sconfinava verso il
quartiere limitrofo, S. Lorenzo.
Un vero ghetto, popolato da poveri operai, prostitute
e gente di malaffare.
Osterie chiassose, ricolme di ubriaconi e pregiudicati.
Case piccole, diroccate e sovraffollate.
Urla di neonati e di adulti in preda a violenti
alterchi, echeggiavano per le strette e sudicie viuzze.
Strade senza selciato, nessuna illuminazione pubblica,
rivoli fognari a cielo aperto e miasmi pestilenziali. Un posto da dove chiunque
avrebbe voluto fuggire.
Invece, in quel posto infame Giuseppe ci andava di nascosto e sempre più spesso, perchè
sentiva scorrere la vita, quella vera.
Ebbe a trovarsi in serio pericolo, qualche volta, ma c'era una cosa che sempre lo portava a tornare. Ed era il poter osservare, a discreta distanza, una piccola scuola,
pulita e ordinata, tenuta in piedi da una certa donna, chiamata Maria. Rimaneva
ogni volta incantato nel vedere quei bimbi così poveri, eppure così felici e liberi, che
giocavano in un cortile fiorito.
E fu proprio lì, in quel luogo infernale, più precisamente in una di quelle osterie dove il
padre non avrebbe mai immaginato di trovarlo, che Giuseppe conobbe il suo Nino.
Lipari si allontana e diventa un puntino nel blu.
Continua....
I bimbi che giocavano nel cortile fiorito della scuola fondata da Maria Montessori in S. Lorenzo, al tempo il quartiere più povero e degadato di una Roma in rapida e disordinata espansione. |
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